Le Marche sono una regione che racconta secoli di incontri, commerci e contaminazioni culturali. Tra mare Adriatico e Appennino, il suo paesaggio cambia a ogni curva, proprio come cambia il suono delle parole. Non esiste un unico dialetto marchigiano, ma una costellazione di parlate locali che variano da valle a valle, influenzate dalle storie dei popoli che le hanno attraversate. Dal tono più settentrionale di Pesaro e Urbino, vicino al romagnolo, ai suoni dolci del maceratese e fermano, fino ai tratti quasi meridionali dell’ascolano e sambenedettese, ogni territorio conserva un accento che è anche identità.
Scoprire i dialetti marchigiani significa conoscere l’anima più autentica della regione: quella che si ascolta nei mercati, nelle osterie e durante le feste popolari. Un patrimonio linguistico ancora vivo, da esplorare con curiosità e rispetto, come si fa con un’opera d’arte viva e sonora.
Parlare di dialetti marchigiani al singolare è una semplificazione che non rende giustizia alla ricchezza linguistica di questa regione. Le Marche sono attraversate da tre grandi aree dialettali, ognuna con caratteristiche fonetiche e lessicali distintive.
A Nord, nelle province di Pesaro e Urbino e lungo la costa fino a Senigallia, domina il cosiddetto gallo-piceno, appartenente al gruppo gallo-italico. Qui le parole perdono spesso la vocale finale – “dmèn” per “domani”, “cità” per “città” – e le consonanti doppie si alleggeriscono. Il suono è rapido e chiaro, con influssi che ricordano il romagnolo e il modenese.
Nella zona centrale (Ancona, Jesi, Macerata, Camerino e Fermo) troviamo i dialetti mediani, cioè quelli tipici dell’Italia centrale. L’anconetano, nato dal porto e dai traffici mediterranei, è una varietà vivace e musicale, dove sopravvive l’articolo “el” al posto di “il” (“el vì”, il vino). Pochi chilometri più a sud il suono cambia ancora: nel maceratese-fermano si conservano le forme “lu”, “la” e “lo”, con una distinzione neutra (“lo vì”, “lo magnà”) che richiama il latino classico.
Nel Sud marchigiano, da Ascoli Piceno alla Riviera delle Palme, si entra in un mondo linguistico vicino all’abruzzese. Qui è evidente la metafonesi, cioè il cambiamento di suono delle vocali accentate: “bello” diventa “biéllë”, “buono” suona come “buónë”. Il dialetto ascolano è musicale e cantilenante, con vocali finali che svaniscono, lasciando una sensazione di ritmo spezzato e melodioso.
Questa varietà linguistica è ben documentata anche dall’Atlante Linguistico Italiano del CNR, che mappa le isoglosse che attraversano la regione. Viaggiare da Pesaro a San Benedetto del Tronto è dunque un percorso attraverso tre Italie linguistiche, unite sotto un’unica identità regionale: quella marchigiana.
Ogni dialetto marchigiano nasconde tracce storiche e fonetiche che raccontano il passaggio dei secoli.
Tra i fenomeni più caratteristici spiccano l’apòcope, la metafonesi, la palatalizzazione e la degeminazione delle consonanti.
L’apòcope – la caduta delle sillabe finali – è tipica del maceratese-fermano: “cà” per “cane”, “trattó” per “trattore”. È una forma di rapidità linguistica che rispecchia il ritmo secco del parlato rurale. Nella stessa area sopravvive l’uso di tre articoli: “lu” (maschile), “la” (femminile) e “lo” (neutro), come in “lo cascio” (il formaggio). È una distinzione linguistica rarissima in Italia, considerata una diretta eredità del latino, studiata anche dall’Università di Macerata – Centro di Dialettologia Italiana.
Nel sud della regione, invece, la metafonesi trasforma le vocali a seconda delle desinenze: “bello” → “biéllë”, “cupo” → “ciupë”. Il fenomeno crea un effetto sonoro quasi musicale, rendendo l’ascolano uno dei dialetti più melodici del Centro Italia.
Lungo la costa anconetana prevale invece la degeminazione: le consonanti doppie diventano semplici (“dona” per “donna”, “ragaza” per “ragazza”). Si tratta di un retaggio dei contatti marittimi tra marinai veneti e greci. L’orecchio riconosce facilmente questo ritmo più morbido e “aperto”.
Infine, nelle zone di transizione (Camerino, Fabriano, Jesi) si incontrano palatalizzazioni (“giorno” → “jórnu”, “ghianda” → “janna”) e armonizzazioni vocaliche (“ferita” → “firita”). Tutto ciò rende il parlato marchigiano un archivio vivente di storia linguistica, perfetto per chi ama viaggiare ascoltando.
I dialetti marchigiani non vivono solo nei libri: si ballano, si cantano e si recitano. Alcune delle esperienze più autentiche per ascoltarli dal vivo sono le feste popolari e i festival folkloristici che animano la regione tutto l’anno.
Tra luglio e ottobre, nelle piazze dei borghi, risuona il ritmo del saltarello marchigiano, una danza antica suonata con organetto, tamburello e ciaramella. Gruppi come Li Matti de Montecò fanno rivivere questa tradizione con spettacoli itineranti. Il Festival del Dialetto di Varano, sulle colline del Conero, è un appuntamento storico promosso dal Comune di Ancona: compagnie teatrali recitano in dialetto anconetano e fermano, accompagnate da piatti tipici e vino Rosso Conero.
A gennaio, invece, tra Capodanno ed Epifania, si celebra la Pasquella di Montecarotto, rito di questua contadino dove i cantori augurano fortuna casa per casa in cambio di vino e dolci. L’edizione 2025 è in attesa di calendario ufficiale.
Ogni festa è un’occasione per “sentire” la lingua viva delle Marche. Nel mercato di Fermo potrai ascoltare “lo vì” o “lu magnà”, mentre a San Benedetto del Tronto la pronuncia si addolcisce con la metafonesi abruzzese. È un viaggio fatto di accenti, musica e parole che cambiano al ritmo delle stagioni e dei dialetti, rendendo le Marche un museo linguistico all’aperto.