Il saltarello marchigiano non è solo una danza popolare, ma un modo di sentire e raccontare la propria terra. Nelle piazze dei borghi marchigiani, tra le colline di Cupramontana, Montecosaro e Castelfidardo, il ritmo vivace dell’organetto accompagna passi, sorrisi e corteggiamenti antichi. È una musica che unisce passato e presente, un linguaggio universale che parla di comunità, lavoro nei campi e gioia condivisa.
Ballato durante le feste contadine, le rievocazioni storiche e i festival estivi, il saltarello continua a essere il cuore pulsante della tradizione marchigiana. Oggi non è un semplice “spettacolo folkloristico”, ma un rito identitario che i gruppi folk e le nuove generazioni mantengono vivo con passione, come simbolo autentico del carattere marchigiano: vivace, orgoglioso e accogliente.
Il saltarello marchigiano affonda le sue radici nel Medioevo, quando i balli popolari rappresentavano momenti di socialità e di ritualità agricola. Alcuni studiosi lo collegano addirittura alla “saltatio” latina, una danza di origine romana praticata nei riti di fertilità e nei culti di passaggio stagionale. Con il passare dei secoli, questa tradizione si è intrecciata con la cultura contadina delle Marche, dando vita a un linguaggio corporeo ricco di simbolismi.
Le prime trascrizioni musicali del saltarello compaiono nel XIV secolo e sono oggi conservate in un manoscritto del British Museum. Nel Quattrocento, il maestro di danza Antonio Cornazzano lo cita tra i movimenti fondamentali della danza italiana, segno che questa forma di ballo era già diffusa e riconosciuta.
Tra storia e leggenda, nelle Marche si racconta che il saltarello fosse il “ballo delle fate” della Regina Sibilla, spirito femminile dei Monti Sibillini. Le fate, secondo la tradizione, insegnavano agli uomini i passi e la costruzione del tamburello, strumento che accompagna ancora oggi la danza. Questa leggenda lega il ballo alla fertilità, alla ciclicità della natura e al potere creativo femminile.
Durante il Rinascimento e l’età moderna, il saltarello uscì dai saloni aristocratici per diffondersi nelle aie contadine, durante la vendemmia o la trebbiatura. Qui divenne simbolo di socialità rurale: uomini e donne ballavano di fronte, si provocavano e si corteggiavano con piccoli passi e salti ritmati. Le autorità religiose cercarono più volte di limitarne la diffusione, considerandolo troppo “libero” o sensuale, ma il popolo marchigiano ne fece un emblema della propria vitalità.
Oggi il saltarello è riconosciuto come una delle danze popolari più antiche d’Italia, al pari della tarantella o della pizzica. Il suo ritmo rapido e allegro, unito a testi in dialetto e strumenti acustici, racconta le Marche autentiche, che ancora oggi si esprimono attraverso musica, canto e movimento.
Per capire davvero l’anima del saltarello bisogna ascoltarne gli strumenti. L’organetto diatonico è il protagonista assoluto: una piccola fisarmonica a bottoni che produce un suono incalzante e vivace. Nelle Marche, questo strumento è legato alla città di Castelfidardo, patria della fisarmonica italiana, dove ancora oggi artigiani e musicisti portano avanti una tradizione secolare.
Accanto all’organetto troviamo il cembalo, un grande tamburello a sonagli in pelle e legno, spesso suonato dalle donne. È lo strumento che scandisce il tempo e “chiama” la comunità al ballo. Secondo la memoria popolare, il cembalo rappresenta il principio femminile, la fertilità e la circolarità del tempo, come la ruota della vita agricola.
Il triangolo, o “timpano”, aggiunge un suono metallico brillante che si distingue sopra gli altri strumenti. È come un campanello che annuncia: “la festa è iniziata”. Insieme, organetto, cembalo e triangolo creano un dialogo ritmico irresistibile, capace di far muovere anche chi non ha mai ballato.
Ogni zona delle Marche presenta però varianti locali. Nell’area di Fabriano si usa anche il violino; nel maceratese, il ritmo è più rapido e saltellato; lungo la costa anconetana prevale un suono più melodico.
Queste differenze riflettono la ricchezza culturale della regione e la capacità del popolo marchigiano di reinventare le proprie tradizioni senza snaturarle.
Il saltarello marchigiano è dunque una musica per il corpo e per l’anima: un invito a partecipare, a condividere, a vivere la festa collettiva. Non stupisce che molti giovani continuino a suonare questi strumenti, portando avanti un’eredità che oggi rappresenta uno dei simboli culturali delle Marche riconosciuti anche a livello nazionale.
Il saltarello vive ancora oggi nelle piazze, nelle sagre e nelle rievocazioni storiche. Chi visita le Marche può assistere a esibizioni spontanee o organizzate, scoprendo un modo autentico di entrare nella cultura locale.
A Cupramontana, durante la Sagra dell’Uva (inizio ottobre), il gruppo “Il Massaccio” anima il centro storico con danze tradizionali, canti in dialetto e costumi popolari.
A Montecosaro, nel cuore del maceratese, si esibiscono i giovani di “Li Matti de Montecò”, gruppo folk fondato nel 2007 che ripropone stornelli e saltarelli locali.
Sulla costa, a Civitanova Marche, il gruppo “La Campagnola” coinvolge turisti e residenti con spettacoli spontanei e lezioni di ballo all’aperto.
Nell’entroterra anconetano, tra Jesi e Montecarotto, il gruppo La Macina, fondato da Gastone Pietrucci nel 1968, continua un lavoro di ricerca straordinario sulla musica di tradizione orale. Le loro esibizioni, sono veri viaggi nel patrimonio immateriale marchigiano.
Durante l’inverno, eventi come la Pasquella di Montecarotto o il Cantamaggio mantengono vivo il legame con i riti di questua. Qui, i cantori percorrono le vie del paese chiedendo doni e auguri per il raccolto, concludendo la visita con un saltarello finale.
Per chi viaggia nelle Marche, assistere a un saltarello dal vivo è un’esperienza da non perdere: un momento in cui musica, lingua e comunità si fondono in un’unica grande festa popolare.